Ben prima che l’arte avesse una storia,
le immagini hanno avuto, hanno portato,
hanno prodotto una memoria.
(George Didi-Huberman)
Lucy Jochamowitz, peruviana di nascita, cresce in una famiglia che incrocia i tipici e fecondi caratteri della “mescla” sudamericana. Poco più che ventenne si trasferisce in Italia, prima a Roma e poi a Firenze, con una borsa di studio a completamento del suo percorso di formazione in ambito artistico già intrapreso a Lima presso la Pontificia Universidad Católica del Perú. Da lì in poi, pur non perdendo mai il legame con la terra d’origine, elegge l’Italia e Firenze a luogo primario di residenza e di lavoro.
Molte sono le tappe del suo percorso espositivo degne di nota, solo per citarne alcune: nel ’95 la XLVI Biennale Venezia, nel 2004 la personale Palabra Rossa al Salone di Villa Romana di Firenze a cura di Katalin Burmeister e la collettiva Ipermercati dell’arte a cura di Omar Calabrese al Museo Santa Maria della Scala di Siena, nel 2005 la personale A flor de piel alla II Biennale d’Arte Grafica di Lima, nel 2008 la personale L’ospite in dialogo con le opere della collezione del Museo di Casa Siviero di Firenze, nel 2012 Perder la testa alla galleria Forum di Lima.
La sua opera, vista in rassegne e gallerie prestigiose, spesso in dialogo tra l’Italia e il Perù, pur amalgamata dal carattere cosmopolita che ha contrassegnato la personale storia familiare e di vita dell’artista, resta contraddistinta dalla matrice originaria. Jochamowitz rimane interprete autentica, ancorché sublimata, della terra natia. La cifra stilistica che di primo acchito e maggiormente ne denota visivamente il lavoro ha a che fare con il flusso sanguigno. Capillari rossi traslati in forme arborescenti intessono trame sulla carta ma che dalla carta fuoriescono anche, concretizzandosi in spinosi rami di biancospino e huaranguillo che mantengono il colore rosso intenso e brillante del sangue.
Così ci pare esplicitato un discorso che rimanda tanto alla ciclicità naturale quanto a quella umana, fatta di alternanza di vita e morte. Il sangue, messo in circolo nell’organismo, è linfa vitale, ma allo stesso tempo la sua presenza insistita, gocciolante, grondante, ormai defluita, ci fa pensare all’interruzione, che non si può escludere brusca, dell’esistere per lo meno come fisica corporeità.
E poco importa che la resa stilistica dell’opera sia, pur nell’immediatezza delle forme, sofistica, il sangue è un primo elemento, imprescindibile, del lavoro di Jochamowitz che lo lega senza riserve alla potente e viscerale cultura latinoamericana.
Un altro è il femmineo che del sangue è contraltare: l’importanza e la centralità della donna, a lungo espressa nella sua opera attraverso la forma della gonna, esageratamente ampia e resa attraverso una varietà di materiali, evolve qui nell’opera Madreflor, sorta di etereo manto bianco, immacolato, fatto di fiori e seni materni, punteggiato e avvolto da rovi rossi.
La carta con cui è realizzata l’installazione è trattata con la consueta maestria manuale di un’artista che sfoglia il ventaglio delle materie disponibili e delle possibilità espressive come le pagine di un libro per sceglierne sempre la citazione più appropriata.
Già prima il sangue era colato dalle imponenti gonne, a volte pazientemente raccolto (Senza titolo) perché prezioso per una ritualità magica e salvifica che, in opere come il trittico Orto, ramifica e fruttifica; a volte, come nell’opera Alcesti 3, semplicemente rovesciato e disperso, ovulo non fecondato.
Il suo lavoro trascorso può dunque essere letto, non unicamente ma anche, come paradigma del potere della fecondazione materna e anche qui il rimando in tal senso è presente.
L’ispirazione dichiarata dall’artista per l’opera Picaflor-Madreflor è un fatto concreto che ha luogo da centinaia di anni in un piccolo paese del Perù rurale, La Arena. Qui tutti gli anni il giorno dei morti viene celebrato un rito che coinvolge le madri e i figli, vivi e morti: tutte le donne che sono state madri e hanno perso dei figli vanno in piazza con il locale miele di canna da zucchero da offrire, spalmato sul pane dolce, ai figli, vivi, di altre madri per nutrire simbolicamente anche i propri.
Si tratta di un rituale in nessun modo religioso, specifica l’artista, sebbene l’illuminazione delle tombe (ridipinte in colori sgargianti ogni anno per l’occasione) attraverso centinaia di lumini rimandi anche al culto cattolico, inevitabilmente derivato dai colonizzatori spagnoli: il significato profondo del rito è certamente laico o meglio culturalmente autoctono.
Il concetto di nutrimento, altro elemento profondamente utile alla comprensione del lavoro di Jochamowitz, è il senso ultimo di questo rituale antico. Già in precedenza la figura femminile da lei variamente delineata nutriva non solo dei figli ma, come è evidente per esempio nell’opera Gonna di Flora Tristán – omaggio all’eroina femminista e combattente franco- peruviana – gli ideali, la cultura, il progresso sociale.
In questo senso non deve sorprendere che di lei e del suo lavoro abbia voluto scrivere (La Falda di Flora 2004) il premio Nobel peruviano per la letteratura Mario Vargas Llosa. Gli scrittori sudamericani hanno alimentato e divulgato istanze profonde della cultura tout-court e, in quest’area geografica, arte e letteratura hanno finito per essere connesse in maniera inscindibile, essendo la critica d’arte considerata quasi alla stregua di un genere letterario. Non solo, Vargas Llosa ha esplicitamente paragonato la necessità dei musei d’arte a quella degli ospedali, i primi infatti non curano i corpi ma “le menti da tutte le malattie che impediscono agli esseri umani di comunicare tra loro […] affinano la sensibilità, stimolano l’immaginazione, educano i sentimenti”.
Il femmineo animato da Jochamowitz è quello di pensiero, ma anche strutturalmente connesso alla tradizione popolare delle piante, delle erbe germogliate e fiorite; la sua è una donna di intelletto che non rinuncia a essere curandera, non rinuncia a farsi carico di nutrire e curare gli istinti e i bisogni primigeni di un figlio che per traslazione diviene il genere umano nel suo complesso.
Questo aspetto è qui vividamente rappresentato: a regalare il nutrimento sono grandi seni bianchi, sontuosi e delicati. Il colore bianco ricorda l’elemento primario del nutrire, il latte materno, tessuto vivo come il sangue, richiamato dagli scarlatti rami di huaranguillo che punteggiano e raccolgono l’installazione delimitandola.
Pensiamo all’opera Pietà di Daniel Santoro, anch’egli artista sudamericano, argentino, che inscena una Evita Peron intenta a cibarsi della carne e del sangue di un esanime Ernesto Che Guevara: la realizzazione estetico-grafica e l’evidente connotazione politica dell’opera di Santoro, qui non c’entrano, ma il concetto forse sì: quello che non può essere comunicato a parole può essere trasmesso cibandosene, nutrendosene.
A supportare l’installazione anche alcune serie di disegni. Ragnatele di rosse ramificazioni che suggeriscono le forme di organi riproduttivi femminili si alternano a elementi floreali. I petali, che nell’installazione fungono da corolla ai seni, ritornano sulle pareti nei toni del rosso cupo e del bianco. L’elemento floreale, già caro all’artista, qui rimanda anche a un’altra componente del rito: quella del picaflor. Piccolo volatile, messaggero dell’aldilà, metafora del bambino morto (los angelitos nella tradizione popolare), che svolazzando si reca di fiore in fiore alla ricerca del suo nettare: miele, latte, sangue e, in ultima istanza, memoria.
Il picaflor rincorre i fiori materni sulla parete e vibra nello spazio della sala grazie alla sua presenza smarginata di ologramma.
Sono molte da Aristotele in poi le teorie della memoria fondate sul ruolo delle immagini come elementi mediatori delle tracce prodotte della storia, ma la prerogativa che Aby Warburg assegna alle immagini come supporti della memoria le connota in un alfabeto nuovo. Le immagini per Warburg non sono solo ricordo degli accadimenti rappresentati, ma sono in grado di produrre la memoria stessa, rendendola visibile dentro la rappresentazione. È questo che accade con il picaflor di Jochamowitz: non è solo ricordo dei bambini morti omaggiati in maniera rituale a La Arena, è esso stesso elemento tangibile nel presente della sua rappresentazione e dunque verificabile nel senso di potenzialmente esperibile dallo spettatore.
L’importanza della resa tangibile di questa componente di memoria collettiva è anche per l’artista la presa di coscienza e la restituzione di una dimensione problematica rispetto alla questione della mortalità infantile che, ancora troppo nel XXI secolo, è causa di dolore in America Latina.
L’esagerazione delle forme dell’istallazione Picaflor-Madreflor e la loro resa, che non prescinde da una componente ironica, rimanda invece alla dimensione gioiosa del rituale. Quella che ha luogo nella piazza di La Arena il giorno dei morti è una festa. Il dolore, la sofferenza, così connaturati al sentire cattolico, non hanno avuto la meglio sulla cultura autoctona dei popoli latinoamericani. Questi, colonizzati dalla violenza missionaria, non hanno abdicato alla loro intima natura: l’anniversario è triste ma per celebrarlo si festeggia.
In un mondo globalizzato dai dettami economici, la piazza, evocata qui anche dall’installazione visivo-sonora, rappresenta il radicamento di uno spazio, luogo del ricevere e del dare, gratuito e disinteressato, attraverso le traversie della vita. Queste si susseguono con sorti alterne, cicliche, stagionali, ma la ritualità che pervade il luogo nel profondo gli ascrive la dimensione del senso, che l’opera di Jochamowitz è capace di cogliere e restituire.
Il ruolo del femmineo primigenio, curativo, reso attraverso le gonne enormi, i fiori che sbocciano seni, il sangue e il latte, qui si trasferisce, per dilatazione, allo spazio nel suo insieme. L’allestimento della grande sala è per lo spettatore quello che è per la comunità la piazza di La Arena: luogo terapeutico, guaritore perché vissuto con un misto di complicità, speranza e inspiegabile mistero.Elisabetta Trincherini